sabato 18 dicembre 2010

CAPTAIN BEEFHEART (1941-2010): La vita come sporca arte!

"Non ho parole per esprimere la tristezza che provo per la scomparsa di questo grande artista. Ebbi la fortuna di conoscerlo diciassette anni fa in California e mi regalo' uno dei suoi tanti cappelli che teneva ammucchiati in casa facendomi gli auguri per il mio lavoro. Fu un caso. Lo incontrai in un pub e cominciammo a parlare davanti ad una birra. Neanche lo riconobbi ne' lui si presento'.
Poi dopo un po' fu pregato di salire sul palco dal gestore che sembrava conoscerlo molto bene e suono' per circa un'oretta alla presenza di una cinquantina di presenti. Si può immaginare il mio stupore; mi imbarazza scriverlo ma io a quei tempi neanche sapevo chi fosse (era il 1993 e avevo 20 anni). Poi mi spiegarono durante il concerto chi era il signore su quel piccolo palco...
Ricordo bene i musicisti che lo accompagnavano: lui al canto e all'armonica, poi c'era un batterista di cui non ricordo molto, un chitarrista di colore sulla cinquantina che suonava da Dio ed un secondo chitarrista o bassista che avrà avuto sui 25 anni e che era seduto con lui al bar già da prima del concerto.
Ricordo che il giorno dopo, entusiasta, mi precipitai nel primo negozio di dischi a comprare il suo disco più famoso. Non rammento cosa suonarono anche perchè era la prima volta che lo ascoltavo, ma rimasi folgorato e stupito dalla musica e dall'atmosfera che riuscirono a creare con quei pochi strumenti" (Pietro Ciraci)


Era lontano dall’ambiente della musica ormai da 28 anni Captain Beefheart, al secolo Donald (Van) Vliet, e si dedicava interamente ai suoi antichi amori, pittura e scultura. A cinque anni già scolpiva statuine di animali col sapone.
Artista fatalmente caduto da tempo nel dimenticatoio almeno per quello che riguardava la sua carriera musicale, su un pianeta abituato ormai a consumare i propri riti rock e pop sempre più in fretta ed a gettarli poi via, abdicando senza troppi problemi a pratiche ormai vetuste ed inutili quali l’approfondimento e l’adorazione della vera arte.
Quell’ arte che non ha potuto non essere nel caso di Beefheart libera, anarchica, dissacratoria, free form, in particolare quella dei dischi incisi dal 1967 al 1972. Anche nel decennio successivo possiamo ravvisare opere assolutamente dignitose come "Doc At The Radar Station (1980, Blue Plate)" e "Ice Cream For Crow (1982, Blue Plate)", attraversate da una vena compositiva ancora corrosiva e fuori dai canoni; ma sono QUELLE cinque opere che abbiamo continuato ad idolatrare nei suoi 28 anni di abiura musicale, che continueranno ad essere per vecchi fans e nuove (si spera!) generazioni i totem assoluti da adorare!
“Safe As Milk (1967, Buddha Rec.)” ancora naïf (se vogliamo) ed alla portata delle masse, in bilico tra pop geniale ed amore per la tradizione blues già sviscerato senza ritegno, corrompendo ritmi boogie e sottomettendola alla sua voce per nulla aggraziata di licantropo in libera uscita tra comuni mortali; approccio vocale rugginoso al vetriolo mutuato dai vecchi maestri del blues del delta ed urbani, Howlin’ Wolf in testa. Anche il suo uso istintivo e primitivo della mouth-harp incorporava richiami ancestrali ed animistici mutuati dalla profondità della cultura nera.
Con “Stricty Personal" (1968, Emi) credo si possano già manipolare a favore di Van Vliet concetti espressivi abusati in campo musicale ma mai come in questo caso appropriati: arte ‘visionaria’, ‘dadaista’, con una Magic Band sottomessa completamente alle direttive di un maestro di cerimonie, che non possono essere codificate in alcun modo; di nuovo il blues del delta (Son House) preso per la collottola e questa volta ‘affogato’ in un brodo rancido di psichedelia aliena dalle coordinate ritmiche ed armoniche dannatamente sghembe e stralunate!
I tre caustici minuti iniziali di Ah Feel Like Ahcid sono solo l’eloquente biglietto da visita di un’opera che come molte altre in quell’anno attraverso la musica voleva capovolgere il mondo: non per rinnovarlo però, ma solo per lasciarlo marcire attraverso le esalazioni velenose di un blues extraterrestre partorito da una galassia cattiva.
Può un disco suonare a più di quarant’anni dal suo concepimento come la creatura di una mente scoordinata e psicotica? Questo è l’effetto che fa ai più ancor oggi “Trout Mask Replica”, doppio vinile di Captain Beefheart & The Magic Band uscito per la Reprise nel fatidico 1969 e prodotto dall'amico Frank Zappa, dannatamente … politicamente scorretto rispetto al trionfo coevo della cultura psichedelica: Beefheart sradica con una furia anarchica senza precedenti tutte le regole codificate su cui era basato il mondo del rock ed inventa di sana pianta quelle che possiamo chiamare delle selvagge non-regole, una quasi totale assenza di rassicuranti punti di riferimento tonali e ritmici a favore di un ‘situazionismo’ creativo che lascia sbalorditi e basiti oggi come nel 1969.
A ben ‘ascoltare’ Van Vliet, che in questi solchi suona anche bass clarinet, sax tenore, sax soprano e la ‘musette’ un particolare strumento a fiato col quale cerca di riprodurre (parole sue) il verso delle cicogne quando si alzano in volo, va ben oltre la dissacrazione del blues del delta e s’impossessa dell’etica libertaria del ‘free jazz’ che in quegli anni ’60 aveva trionfato grazie a menti scoperchiate come Ornette Coleman, Roland Kirk e John Coltrane.
Fa sue nei solchi di Trout Mask Replica istanze come l’improvvisazione ed il libero interagire degli strumenti, scardinando le regole ‘modali’ su cui il rock si era sempre basato.
Inutile negare quanto l’ascolto di quest’opera, rimasta ineguagliata nei decenni successivi, esiga non solo una disponibilità ‘totale’ da parte dell’ascoltatore nel mettere in discussione codici e comportamenti artistici codificati , ma anche una massiccia dose di masochismo auditivo (perché nasconderlo?): solo così si potrà entrare nel territorio ‘franco’ paludoso di grandissimi brani quali Veteran’s Day Poppy (che da una vita non smette di affascinarmi), My Human Gets Me Blues, Moonlight in Vermont, When Big Joan Sets Up, Ella Guru, Dachau Blues, Old Fart At Play (l’elenco è lunghissimo) e goderne il dadaismo/surrealismo corrosivo.
Trout Mask Replica è un grandioso, ‘astratto’, sperimentale affresco sonoro nel quale il Capitano è riuscito a far combaciare le sue due grandi passioni, musica e pittura.
“Lick My Decals Off, Baby” e “Mirror Man”, entrambe uscite nel 1970, sono opere che serializzano i comportamenti dissacratori di Strictly Personal e Trout Mask Replica, imperdibili anch’esse per chi si fosse incautamente lasciato sedurre dalla mente diabolica di Beefheart. Né mi sento assolutamente di biasimare coloro che due anni dopo aggiunsero all’indispensabile catalogo del nostro due dischi nei quali la sua follia era divenuta ‘lucida’ non perdendo che qualche grammo del suo fascino, "Clear Spot" e The "Spotlight Kid". Tra il 1974 ed il 1978 invece escono tre dischi la cui mancanza nella vostra collezione non rappresenta assolutamente un handicap nella conoscenza del Beefheart essenziale.
“Per tutta la vita hanno continuato a dire che ero un genio …” così commentò disincantato ed un po’ amareggiato Van Vliet quando abbracciò la pensione dall’ambiente musicale nel 1982 “ …ma intanto hanno anche insegnato al pubblico che la mia musica è troppo difficile da ascoltare”.
E poi: “Ho definitivamente abbandonato la scena rock, anche se non mi sono mai considerato una rockstar. In molti hanno provato a farmici diventare, ma sono sempre riuscito a fregarli".
Beefheart è sopravvissuto 16 anni alla dipartita del suo grande amico e collaboratore Frank Zappa.

Allegri! Il Capitano non c’è più, ma continuerà a vivere nelle sue immortali opere sulfuree!


Wally Boffoli

Captain Beefheart and his Magic Band:
I'm Glad

Electricity
Veteran's Day Poppy
Dachau Blues
Ella Guru
Ah Feel Like Ahcid
On Tomorrow
Safe As Milk
Grown So Hugly
Ashtray Heart
Ice Cream for Crow

CaptainBeefheart

SHORT REVIEW – Marlowe, “Fiumedinisi” (2010, Seahorse Recordings/Audioglobe/Lunatik)

“Fiumedinisi” è il titolo dell'album presentato dai siciliani Marlowe. Il sound è profondamente debitore nei confronti dei primi anni '80, ma non pensate a band dagli arrangiamenti corposi e sovrabbondanti come furono Simple Minds o Japan, o men che meno al boy-pop di Duran Duran e Spandau Ballet. I riferimenti dei Marlowe sono quelli, più scarni e cupi, di band come the Church, The Sound o, addirittura, di formazioni successive al boom del dark e della new-wave, emerse al termine degli anni '80. Si pensi (pur sempre ricordando che i paragoni valgono quel che valgono, ovviamente) a Lloyd Cole and the Commotions o anche ai Jesus and Mary Chain di “Darklands”.
I parametri di quella scuola ci sono tutti: chitarre taglienti, suoni asciutti, un mixaggio che offre ampio spazio a un drumming presente e a tratti tribale e a linee di basso scandite. A riportarci nei patrii confini la scelta del cantato in italiano, costruito su esili linee melodiche tra il recitato e il sussurrato. Da segnalare la presenza, in qualità di ospite, di Angela Baraldi, cantautrice e attrice per Gabriele Salvatores. Nel panorama indie italiano attuale potrebbero essere accomunati a band come the Gosh o Rafidia, ma con una vena più intimista rispetto ai loro colleghi.
Alberto Galandro

venerdì 17 dicembre 2010

Piermatteo Carattoni, “Pagine strappate” (2010, PMS Studio/Lunatik)

"Pagine strappate” di Piermatteo Carattoni, riscopre la nobile e affascinante arte del concept album, una formula assai in voga soprattutto negli anni '70, basata sull'idea che tutte le canzoni, anziché nascere e morire in maniera fine a se stessa, seguivano il filo conduttore di un'unica trama, proprio come capitoli di un romanzo o movimenti di un'opera lirica. Per la verità se ciò non fosse specificato nelle note che accompagnano l'album, non sarebbe particolarmente immediato ricondurre la trama del concept alla parabola, ascendente e poi discendente, di un amore.
Il sound di
Carattoni, che potremmo definire un cantautore rock, è difficilmente collocabile: la partenza hard-blues di asfalto tra chitarre gustosamente sferraglianti, armonica a bocca ed un timbro di voce giocato su sonorità medio-alte, farebbe pensare a certo hard-rock anni '70, o ancora di più a certe band che negli anni '90, in piena era grunge, andavano proprio a riscoprire le pieghe più acide e psichedeliche di quell'hard. Si pensi a Blind Melon, Katmandu o Dogs d'Amour. Eppure, al tempo stesso, quel cantato rabbioso in italiano non può fare a meno di spingerci a pensare agli esordi di un Edoardo Bennato. Esattamente come le successive, piu' intimiste e melodiche Babbo Natale esiste e Cantaurora richiamano alla mente le ballad di Neil Young, ma al tempo stesso anche Alberto Fortis e Ivan Graziani. Addirittura in quel toccante elogio/non elogio della solitudine che è il brano Da soli emerge lo spettro di quello che fu il gran dissimo Claudio Rocchi del periodo "Viaggio - Volo Magico n. 1 e 2". I percorsi musicali di questa rock-opera di Piermatteo Carattoni sono esattamente questi: intrisi di anni '70 al di qua e al di la' dell'oceano, come un ponte tra il nostro cantautorato dell'epoca e quello di tradizione inglese e statunitense, con timidi echi prog (un'influenza, quest'ultima, che emerge più prepotente nell'arpeggio iniziale e nel crescendo finale della lunga E poi mi rivivrei) e psych sussurrati con grazia.
Alberto Sgarlato

THE IMMORTAL LEE COUNTY KILLERS (1999-2007): Un virus punk-blues dall'Alabama!

I.L.C.K. I: The Essential Fucked Up Blues

The Immortal Lee County Killers I erano Chetley "el Cheetah" YZ Weise (guitars/lead vocals/harp) e Doug ‘the Boss’ Sherrard alla batteria (poi sostituito da J.R.R. Token, drums/percussions/vocals), un duo proveniente dalla profonda Alabama (Lee County): in quella regione, ad Auburn, il duo, contagiato dal morbo del delta-blues, iniziò a suonare nel 1999, non nuovi alle scene avendo già in passato militato in formazioni garage estreme quali Quadrajets e Mobile’s Sphamm.
Trovano subito nella Estrus Records di Bellingham (Wa) la casa ideale per le loro sperimentazioni blues.
Sì perché già nel loro primo documento di lunga durata del 2001, “The Essential Fucked Up Blues” l'etichetta di Dave Crider diede loro carta bianca, con Tim Kerr (musicista/produttore icona) come ingegnere del suono dalla mano decisamente pesante!
“The Essential Fucked Up Blues” apparve subito come un ennesimo tentativo tutto bianco , sulle orme di Bassholes, Thundercrack, Jack'O Fire, di rivisitare il paludoso delta blues nero con spirito punk incendiario. La loro musica era trafitta anche da un lancinante grido di esasperato esistenzialismo: libertà o morte! Grido anarchico, così come anarchico e superamplificato é il loro approccio sonoro, stordente addirittura, con Chet Weise che si serve nello stesso brano fino di tre diversi 'amps' per ottenere un 'different noise', evocando e surclassando l'hendrixismo più esasperato!
Noise-blues si chiama quindi la loro pianta carnivora che si nutre di radici profondissime come John Lee Hooker, Hound Dog Taylor, Skip James, Jerry Lee Lewis (il ‘killer’ originale cui la band si è ispirata per la ragione sociale), ma anche di noise/rock icone come Blue Cheer, MC 5 sino all’improvvisazione spaziale di un altro incredibile nativo dell’Alabama: Sun Ra.
Il rispetto per tutto ciò è ribadito due anni dopo nelle press-notes del loro secondo lavoro “Love Is Charm Of Powerful Trouble” (Estrus, 2003) ma si ribadisce anche la ferrea volontà di rompere la tradizione del Mississippi Delta Blues e del Rock&Roll per cercare di creare qualcosa di nuovo, ed in modo anche violento: 'Fuck Punk Rock, Fuck Blues, Fuck Rock&Roll'. Promette il batterista J.R.R.Token  (ha sostituito l'originario Doug 'The Boss' Sherrard): "... quando la nebbia sarà calata ed il fumo dissipato, voi saprete chi sono i Killers".
Questo estremismo ideologico/musicale era passato ad eloquenti vie di fatto nel primo lavoro, che appariva come una colata lavica incandescente nella quale il blues subiva un'autopsia impietosa ( al macero le ortodosse dodici battute), esalando attraverso i solchi spessi umori noir. Tutto l'album a partire da Let's Get Killed incuteva davvero paura sino alla sadica rivisitazione dell'immarcescibile Rollin' Stone (Muddy Waters), violentata nel corso di nove minuti, nella quale sprazzi di minimalismo blues erano alternati a saturazioni chitarristiche e soprassalti sonori tostissimi.
L’implacabile Go to Hell on Judgement Day, uno dei momenti più abrasivi del disco, attraversato da furore noise-delta cattivissimo, non preannuncia nulla di buono per quando arriverà QUEL momento; la cangiante Won’t Cook Fish possiede un Taste-riff da sballo: sembra cantato e suonato da un Gallagher fuori di testa, lui e la sua slide! The I.L.C.K. appaiono l’ideale contraltare bianco alla setta blues nera della Fat Possum, altra etichetta di culto, promettendoci di liberarci dal ‘male’ con la potenza catartica dei loro kilowatt.

Let’s Get Killed
Rollin’ Stone
Got To Hell on a Judgement Day
Won’t Cook Fish


I.L.C.K. II: Love Is A Charm Of Powerful Trouble

"Love Is A Charm Of Powerful Trouble" (Estrus, 2003) non é da meno in quanto a crudezza espressiva ed i 'walls of sound' degli originali Love Is A Charm, Robert Johnson, She's Not Afraid of Anything Walking, Shitcanned Again, la slide velenosa di Cheetah che imperversa indisturbata, ci restituiscono un meraviglioso implacabile duo incazzato sino al midollo che i puristi del blues rifuggono come la peste! Prendete le covers di Rollin'And Tumblin' e Don't Nothing Hurt Me Like My Back And Side: meravigliose sculture di noise punk -blues del tutto irriverenti della tradizione che confermano le doti immense di potenti trasfiguratori/sfregiatori degli I.L.C.K. II; mentre piuttosto riconoscibili appaiono quelle di That's How Strong My Love Is (Jamison) e Goin' Down South (Robert Burnside), un monumentale depressing/lo-fi blues che ha la stessa forza espressiva 'maledetta' di un dipinto del Caravaggio.
Ma Love Is A Charm Of Powerful Trouble é anche l'originale Truth Through Sound, What Are They Doing In Heaven Today? (Tindley), Weak Brain, Narrow Mind (Willie Dixon), episodi elettro-acustici decisamente più distesi, nei quali il mal di vivere sviscerato dal blues assume toni più intimisti, un aspetto inedito per i due.
Il tema stesso del disco: 'l'amore come trionfo del dolore' ci dice che un male oscuro ed infido ha cominciato a mettere metastasi all'interno dell'inossidabile estetica anarchico/ lo-fi dei due.


Shitcanned Again
Robert Johnson
Immortal Lee County Killers - Don't Nothing Hurt Me Like My Back and Side
Rollin’ and Tumblin’
Goin’ Down South


Love Unbolts The Dark

Ho sempre avuto una vera debolezza emotiva e non l’ho mai nascosta per questo duo proveniente dall’Alabama, Auburn-Lee County, che quando uscì il terzo lavoro “Love Unbolts The Dark" (Sweet Nothing, 2003), dopo le “Orange Sessions, vol.2” per Orange Music, già da tre anni continuava a sfregiare e violentare il blues del delta: Chetley Weise il maestro di cerimonie, vocalist e chitarrista estremamente istintivo come nessuno allora sulla scena riusciva a riattualizzare i sordidi contenuti dei santoni blues di sempre strapazzando slide ed amplificatori in un culto devoto al noise senza precedenti.
A Febbraio di quello stesso anno Chet aveva dispensato un intenso “Love Is A Charm Of Powerful Trouble” inciso per la Estrus come il debutto; con questo terzo lavoro per la Sweet Nothing si rivela ancora curiosamente invischiato nei misteri arcani di questa forza primigenia che è l’Amore, intitolandolo ed introducendolo con alcuni versi di Dylan Thomas.
“Love Unbolts The Dark” è metà in studio, metà live : nei cinque brani della prima
Chet Weise mette sul tappeto un songwriting decisamente più a fuoco che in passato incrociando il suo blues ‘immortale’ con le istanze più torride ed oltraggiose del rock&roll storico americano, Mc5 e Stooges prima di tutto e così Boom Boom, The Damned Don’t Cry, Rock&Roll Is Killing Me traboccano di sana disperazione ed energia rockistica, la rilettura di Burnin’ Hell (J.L.Hooker) non è affatto scolastica (come al solito) mentre God Bless The Losers Who Try è torbida ed introversa nella sua lentezza malata.
Dal vivo I.L.C.K.II erano una vera forza della natura a dispetto della loro formula minimale e la live-side di Love Unbolts The Dark lo dimostra generosamente: il duo americano aveva da poco sfoggiato con successo il suo sound turbolento anche in Italia, all’Indipendent Days Festival. Dopo lo strascicato recitato di Ain’t Goin’Down To Well No More (Leadbelly) declamato da Chet a Waverly, Alabama, praticamente in casa sua, abbondantemente sottolineato dalle grida di un rado pubblico in calore, le versioni ultrasature e sfracellate di due classici della prim’ora, Let’s Get Killed e Said I’d Find My Way eseguite alla BBC per il John Peel Show : slide in libertà, dosi abbondanti di feedback e voce esasperata a testimoniare la rivoluzione estetica e formale apportata al blues atavico nella fase iniziale della loro carriera.
Più scolastica la lenta Never Get Out Of These Blues Alive dal vivo al Vera Club di Groningen, Olanda: qui Chet ancora una volta pare il Rory Gallagher più punk ed etilico che si possa immaginare con le sue rasoiate slide ed il vocalismo stravolto …scusate se è poco!
Vera ciliegina sulla torta la finale versione acustica di un brano di Skip James, Devil Got My Woman, il volto più intimista e chiaroscurale di Chet: magnetica è l’ipnosi disegnata dalle sue corde e l’abbandono estatico della sua voce.
37 minuti, davvero troppo pochi per soddisfare la sete insaziabile di blues bastardo che ci consuma, ma sufficienti per comprendere ancora una volta l’enorme statura artistica degli Immortal Lee County Killers II.

Never Get Out These Blues Alive
Go To Hell live



I.L.C.K. III: These Bones Will Rise To Love You Again

L’ultimo album di I.L.C.K., (Tee Pee Rec., 9/6/2005) versione III, con Jeff all’organo in bella evidenza.
Parte con tre songs che con il blues non hanno molto a che spartire anche se Turn on the Panther é notevole: ne troverete solo una pallida ombra anche in Blues, con un’armonica nostalgica in bella evidenza. Solo con Boom Boom il disco decolla: il ritmo è travolgente ma Chet Weise ha comunque perso molta della sfrontatezza interpretativa gettata in pasto nei tre lavori precedenti. Airliner e The Damned Don’t Cry (sembra una dannata danza indiana propiziatoria!) si dirigono addirittura verso lidi garage/psichedelici con quell’organo deragliante così volutamente in primo piano. Sonic Angel li segue poco dopo, impregnata anch’essa di un torbido mood da nativi americani.
Stiched in Sin è song acustica malata ed intrigante, come Lights Down Low, organistica e delicata ballata in punta di corde: avete presente gli Stones di Child Of The Moon?
Il gospel solitario di No More My Lord conclude un disco molto più politicamente corretto dei tre precedenti ma non privo di un suo fascino autonomo, dove il blues si può solo intuire tra le pieghe di songs attratte da tentazioni folk-lisergiche.
Dopo lo scioglimento degli I.L.C.K. nel 2007 Chet Weise formò una nuova punk-blues band, Silver Lion's 20/20.

Turn on the Panther

Wally Boffoli
T.I.L.C.K. MySpace
GrunnenRocks

giovedì 16 dicembre 2010

CRIME – San Francisco ‘s Still Doomed (2004, Swami Rec.)

San Francisco, 1974
Johnny e Frankie sono arrivati in California giovanissimi.
Più che per inseguire un sogno, come facevano gli hippies degli anni Sessanta, per scappare dai propri incubi. Passano i pomeriggi a fumare marijuana e ad ascoltare un sacco di dischi. Molto rock ‘n roll, tanta surf music strumentale e molto garage rock dei sixties. Adorano Johnny Kidd, gli Stooges, i Sonics, i Count Five. Ma soprattutto venerano i Ventures. Amano le foto che li ritraggono in divisa, amano le copertine dei loro dischi e trovano la loro musica elementare ma coinvolgente.
Così decidono di imparare a suonare le loro canzoni, riffando sopra a Play The Guitar with The Ventures.
E invece scoprono che sono anche quelle troppo complicate per due inetti come loro. Ma la voglia di mettere su una band rimane. E così fanno. Una band che suona come il primo provino dei Ventures. Fanno roba strumentale, elementare e a volume altissimo. Finchè non incontrano Thunders e le “ragazze” delle New York Dolls che fanno loro acquisire consapevolezza motivando in qualche modo la loro scelta abrasiva, elementare ma violenta.
Reclutano altra gente: Ron Greco viene direttamente dalla storia della sixties music locale avendo suonato dieci anni prima nei Chosen Few, poi diventati Flamin’ Groovies. Per il batterista la scelta è più complicata. Perché gli Space Invaders non fanno audizioni. Non sanno distinguere un batterista da un suonatore di bonghi, cosa dovrebbero ascoltare? Loro setacciano la scena e cercano qualcuno con la giusta immagine.
Se sa anche suonare la batteria, bene. Alla fine trovano Ricky Williams, uno che sembra tirato fuori dalla copertina di Walk, don't Run e che picchia i tamburi così forte che la batteria devono fissarla a terra per evitare che lui gli corra dietro. Quello è il momento in cui gli Space Invaders diventano i Crime, una delle più mostruose punk-band di San Francisco.
E vogliono essere i primi ad incidere un disco, a lasciare un segno del loro passaggio. Sanno che non durerà, così vogliono andare fino in fondo.
Affittano uno studio e un tecnico che non servirà a un cazzo se non ad alzare al massimo il volume delle chitarre durante le esecuzioni di Hot wire my heart e Baby, you're so repulsive. Gliele fanno sentire, poi gli intimano di registrarle in sequenza alzando la massimo i cursori e di togliersi dalle palle, perché non le risuoneranno più. Sanno che non durerà, eppure dura. Per cinque anni durante i quali la band non si spreca a rinchiudersi in studio ma sceglie di suonare il più possibile ritagliandosi un’ immagine eccessiva e fanatica. Posando in divisa. Ma non come i Ventures.
In divisa da piedipiatti, anche quando si trovano a suonare dentro il Carcere di San Quentin davanti a una folla di detenuti che sputano sul palco e li minacciano di usare i manganelli come dei dildo. Il loro unico album esce postumo, di molto. Lo pubblica nel 1991 John Balance dei Coil per la sua label ("San Francisco Doomed", Solar Lodge Rec.), in poche migliaia di copie. Lo ripubblica quindici anni dopo la Swami, l’ etichetta col turbante, aggiungendo le prime versioni di Hot wire my heart e Baby, you ‘re so repulsive di cui vi parlavo.
Sono due sessions di registrazioni, con due diversi produttori che cercano di catturare la forza impattiva dei set dei Crime facendoli suonare in presa diretta ed errori compresi tirando fuori un disco crudo e sporco come il bootleg di una qualsiasi, scalcinata, mal messa garage band.
Do not cross the line: Crime Scene”


Franco Lys Dimauro

"San Francisco's Still Doomed"  tracklist:
1 Frustration 2:24
2 Crime Wave 1:24
3 I Knew This Nurse 2:36
4 San Francisco's Doomed 2:25
5 Rock 'n' Roll Enemy No. 1 2:24
6 Piss On Your Dog 2:36
7 Feel The Beat 1:24
8 I Stupid Anyway 1:56
9 Twisted 1:45
10 Murder By Guitar 4:30
11 Instrumental Instrumental 1:46
12 Flyeater 1:30
13 Rockabilly Drugstore 2:40
14 Dillinger's Brain 1:49
15 Flipout 2:49
16 Emergency Music Ward 2:06
17 Monkey On Your Back 2:57
18 Yakuza 3:12
19 Rockin' Weird 2:07
20 Samurai 3:07
21 Hot Wire My Heart (Alternative Take) 3:19
22 Baby, You're So Repulsive (Alternative Take) 2:15


Hot Wire My Heart/Baby You’re So Repulsive

Crime - San Francisco’s Doomed 1977
Frustration
Feel The Beat 1976
Rockin’ Weird 1977
Rock & Roll Enemy n.1
CRIME - LIVE MABUHAY GARDENS 4 FEB. 1978 - Part.1 (9:05)
Crime Prison Performance
Flipout
CRIME - "Murder By Guitar" @ Sub-Mission, San Francisco, 8/16/09

Crime

SHORT REVIEWS - Le Braghe Corte, “Hey Hey Hey” (2010, LBC Records/Venus/Lunatik)

Dagli esordi del '97 al periodo cruciale compreso tra il 2003 e il 2007 culminato nella splendida These boots are made for walkin', riuscitissima cover del brano di Nancy Sinatra, la band bolognese si ripresenta dopo tre anni con un ottimo album che costituisce un'ulteriore tappa della sua inarrestabile crescita artistica. Hey Hey Hey" esplora molteplici aspetti dell'universo sonoro di questa Big Band Rock: dal trittico della Edgard's Suite (swingante boogie, straniante radiohead-oriented rock, funambolico sound klezmer-balcanico) al punk-ska tra Brixton e il CBGB's di Bullshit (Piotta si palesa e rappa), This is my town, Speed up e Voices (assistiamo alla nascita della “lirica punk”?), al potenziale hit-single di Qualunque cosa farò, pronto così com'è a scalare le classifiche non solo di settore. Le esplosive Do you mind, The mistake, Play along ci conducono rockando & rollando verso la fine di questo appassionante viaggio in musica. Un lavoro davvero bello, ben suonato e ben prodotto che restituisce in pieno la coinvolgente energia che i fan sono abituati a ricevere durante le incandescenti performance live. Ecco il disco di una delle più belle realtà della musica italiana.
Maurizio Galasso

Le Braghe Corte - Hey Hey Hey Sneak Preview

SHORT REVIEWS - Alcool Etilico, “Alcool Etilico” (2010, EnZone/Audioglobe/Lunatik)

Album d'esordio per la band siciliana. Le dieci tracce, registrate in sala prove e missate in studio, mostrano come il sestetto di Lipari sia ancora alla ricerca di una dimensione ben precisa, di un approccio alla propria musica meno ingenuo e più maturo, tale da far superare a chi ascolta quella sensazione di accentuata uniformità che caratterizza la sequenza dei brani. In nuce elementi da sviluppare ci sono: le chitarre tessono intrecci gradevoli e l'uso minimale delle tastiere colora in giusta misura l'insieme armonico e ritmico. Tra Lloyd Cole e certo rock catanese targato Cyclope; Parlando di me - promo ha un bel refrain; Scende il sereno e Dentro casa scivolano via piacevolmente leggere e sono forse le più convincenti. Interessante il recitato su base iterativa de Il germoglio fiorito. Una maggiore cura negli arrangiamenti e una produzione più attenta alle dinamiche e ai colori dei suoni avrebbero forse contribuito a valorizzare questo lavoro. Entusiasmo e dedizione comunque non mancano.
Maurizio Galasso

mercoledì 15 dicembre 2010

L'ALTRA EUROPA - Elettronica, Chill Out, Alternative Pop, Progressive da un pianeta sconosciuto - ROMANIA: Ioan Titu aka Silent Strike, Şuie Paparude

Parlando di Romania è alquanto difficile che (a parte poche eccezioni) a qualcuno possa venire in mente di pensare alla straordinaria cultura di questo Paese e, men che meno, al suo ricchissimo patrimonio musicale.
Condizionati dai luoghi comuni indotti da circostanze contingenti, dai media più o meno disinformanti, da un’ignoranza di fondo a cui la cultura dominante non pone rimedio, la Romania ha subito, ben più di altri Paesi d’oltrecortina, le conseguenze di un isolamento pressocchè totale. Costretta per molto tempo a subire una atipica dittatura mascherata da democrazia popolare ad opera di un vero e proprio satrapo quale fu il Conducător Nicolae Ceauşescu, la Romania si ridusse in uno stato di povertà economica e morale di cui ancora oggi sono evidenti gli effetti.
Confinata in un angolo oscuro (nel vero senso della parola per via della cronica carenza di energia elettrica che ridusse il Paese al buio) del "campo socialista", la Romania è stata in pratica assente dall’Europa per un tempo lunghissimo.
L’isolamento ha tuttavia permesso di preservare il ricchissimo patrimoniotradizionale romeno e quindi anche quello musicale che oggi, con il ritorno della Romania, pur fra mille difficoltà, nel consesso europeo, contribuisce a conferire alle espressioni musicali di questo Paese caratteristiche del tutto peculiari. Va infine sottolineato che malgrado la crescente urbanizzazione e modernizzazione, la Romania continua a mantenere una connotazione spiccatamente agricola, cosa questa che ha conservato, quasi del tutto intatte, le tradizioni musicali locali.
Tutto questo potrà essere oggetto di analisi più specifiche quando se ne darà l’occasione in questa rubrica.
Per la presente occasione, che possiamo considerare di approccio alla realtà musicale romena, ecco uno sguardo alla scena musicale odierna con due produzioni musicali particolarmente rappresentative che tuttavia rimangono confinate, come quasi tutta la rimanente produzione nazionale, entro i confini del Paese senza che in particolare in Occidente se ne abbia una particolare conoscenza.

Ioan Titu aka "Silent Strike"
Ioan Titu aka "Silent Strike", pur giovanissimo (ha iniziato a comporre musica a soli 15 anni !) è fra i più noti rappresentanti in Romania delle nuove espressioni musicali ascrivibili all’elettronica e a tutti i sottogeneri derivati.
Originario di Bacău nella Moldavia romena, Ioan Titu si è subito distinto a livello internazionale per le apprezzate colonne sonore divenute lo score di pellicole prodotte in molti Paesi, Stati Uniti compresi. Numerose e continue le esibizioni dal vivo che di recente lo hanno visto sulla scena in Inghilterra, Francia, Germania senza che purtroppo l’Italia venisse mai compresa nel circuito dell’artista.
Altrettanto numerose le collaborazioni artistiche che a partire dal 2005, anno della pubblicazione del primo album di Silent Strike hanno visto Ioan Titu dar vita a innumerevoli progetti non solo nel suo Paese ma anche nel Regno Unito, negli USA e nei Paesi scandinavi…
Il primo album di Silent Strike viene pubblicato nel 2005 ed è già fortemente rappresentativo di tutte le influenze musicali e culturali della terra d’origine di Ioan Titu che ne trae una mirabile sintesi in una tracklist di brani dai suoni maturi e compiuti che vanno ad arricchire un genere come quello dell’elettronica che sembra trarre nuova linfa dai suoni misteriosi e profondi delle scure foreste romene.

From “Silent Strike“ album – (Detasare) del 2005 – La Strada Music

Particolarmente bella è la successiva proposta, dal medesimo primo album di Silent Strike in cui la fusione di sonorità tradizionali della terra romena con suoni elettronici e down tempo risulta di grande fascino. Tutta giocata su suoni nervosi di percussioni alienanti a descrivere una realtà disumanizzante, percorsa da una vena di struggente malinconia.

From “Silent Strike“ album – (Floating sadness) 2005 – La Strada Music

Ancora un estratto dal primo album di Silent Strike, un brano dalle cadenze lente e profonde, come l’immensità dei mari, da cui sembrano levarsi voci suadenti di sirene ammaliatrici.

From “Silent Strike“ album – (Dolphins) del 2005 – Etichetta La Strada Music


Nel 2009 Silent Strike pubblica un doppio album dal titolo “Alb", frutto della collaborazione di Ioan Titu con numerosi artisti della scena musicale romena. Il risultato è un mirabile connubio di elettronica, suoni glitch, dubstep, escursioni nell’ambient….
Un album da ascoltare nelle fredde serate autunnali, confortati da un buon calice di vino.

From “Alb“ album – (Solitude) del 2009 - Etichetta La Strada Music


Şuie Paparude
I Şuie Paparude sono quella che usualmente, in casi simili, si potrebbe definire una band di culto… Amatissimi in Romania, si formano nel 1993 diventando in breve tempo fra i gruppi più rappresentativi in ambito elettronico collezionando una serie di albums (otto a tutt’oggi) di pregio assoluto.
Non potendo esaurire in questa sede un discorso certamente ampio a proposito dei Şuie Paparude rivolgo la mia attenzione all’ultimissimo lavoro della band, pubblicato quest’anno con la formula del download gratuito dal web, riscuotendo da subito grandi consensi in patria…
L’anima della band è Mihai Campineanu aka Michi , autore delle musiche e personaggio eclettico della scena musicale romena, autore di progetti solisti di grandissimo interesse, cosa di cui mi riprometto di parlare in una prossima occasione. L’ultimo album dei Şuie Paparude dal titolo “E Suflet În Aparat“ è un incrocio di suoni techno break beat, elettronici, persino alternative beat che danno la misura di una band orientata verso sonorità che lo stesso Michi va sviluppando in progetti paralleli….
Per tutti coloro che hanno una percezione “distorta“ della Romania dettata dalle logiche politiche e dalle convenzioni culturali vale la pena ascoltare questi estratti dall’album dei Şuie Paparude per guardare con uno sguardo meno condizionato alla realtà di un Paese per troppo tempo rimasto ai margini della cultura europea ed occidentale in particolare….
Si comincia con un brano sorprendente per la band romena dei Șuie Paparude che sconfina apertamente in territori shoegaze e alt rock ! Un brano che, se presentato da una band occidentale, sarebbe destinato a diventare una hit all’istante.

Șuie Paparude - “E Suflet În Aparat” - (Cea Mai Bună Zi) 2010 Music

Esaltante prova strumentale dei Șuie Paparude in cui è evidente il tocco creativo di Michi e che dà tutta la misura dell’eccellente livello raggiunto da questa band romena.

Șuie Paparude – “E Suflet În Aparat” - (Moartea boxalo) 2010 Cat Music

Sempre da “E Suflet În Aparat” un bellissimo brano che percorre territori di uno space ambient dal grandissimo fascino e che risulta davvero difficile pensare provenire da un Paese quale la Romania che ha fatto davvero passi da gigante nell’avvicinarsi a suoni e metodi del tutto ignoti fino a non molti anni fa.

Șuie Paparude - “E Suflet În Aparat” – (Baby Satellite ) 2010 Etichetta Cat Music

E per finire questo primo incontro con i Șuie Paparude, ancora un bellissimo estratto dal loro ultimo album che dà la misura della grande versatilità di questa band romena amatissima in patria.

Șuie Paparude – “E Suflet În Aparat” - (O Noapte Mai Lungă) 2010 Etichetta Cat Music


Roberto Melfi

MADE IN ITALY - Elizabeth, “Ruggine” (Mescal, 2010)


Da Scandiano (RE) arrivano gli Elizabeth, questa formazione innamorata del rock inglese degli anni ’90 e degli Who: già dalla copertina con la coccarda inglese con la tipica scritta mod si capisce che questo è il loro trademark.
Ma gli Elizabeth non sono solo questo. La loro musica è anche molto italiana per via dei testi e della ariosità dei brani, molto intimisti, rabbiosi e diretti ad un pubblico giovane. Registrato all’Esagono di Rubiera, dove molti grandi artisti italiani fanno uscire i loro dischi e sotto la direzione artistica di Daniele Bagni, bassista dei riuniti Litfiba, la band ha voluto dare sfoggio di una musica registrata in presa diretta con poche ma significative sovraincisioni.
Diversi i brani che vi piaceranno: Un modo per me è dedicata al sogno di un mondo migliore con un posto in prima fila", ed è anche il secondo singolo e videoclip, girato a Londra. Opportunità è non solo rivolta alle persone che devono decidere della loro vita perché “bisogna tuffarsi dentro ogni singola opportunità, non c’è più niente da perdere”, è anche un messaggio rivolto anche alle band che se ne stanno con le mani in mano e non fanno altro che lamentarsi che le cose non vanno bene. Piove su Milano è una romantica ballata e primo singolo che ha avuto anche una versione in inglese con You are my light (usata per uno spot televisivo). Paradossalmente funziona meglio la versione italiana, forse perché la musica ha battute più larghe che si addicono maggiormente alla nostra lingua, meno tronca di quella della terra di Albione.
Gli Oasis affiorano prepotentemente in Disinfettante. Su una traccia ritmica e una chitarra rock che ricordano All around the world, la band chiede “disinfettante per la terra”, un qualcosa che elimini l’abitudinarietà, “una lurida malattia, ti brucia il cervello è meglio evitarla” : quanti di voi , ascoltando questa canzone, non ci vedono i tempi attuali, così bui ed abitudinari?
Si parlava prima degli Who, che vengono omaggiati alla grande in La mia generazione. Su una tipica ritmica dove si staglia un hammond si confrontano un padre e un figlio: quest’ultimo vuole più spazio e comprensione per la sua vita, così diversa da quella del suo vecchio. Mi è piaciuta in particolare Schizofrenia: un’altra ballata malinconica su una persona che si interroga sulla sua pazzia, bello sentire che nel testo gli Elizabeth ci mettono poetica e fantasia. “Qualcosa è cambiato e non riesco a starci dentro”, non è la solita frase brutale che si incontra in certi testi, ed è anche un modo tipicamente British di esprimersi, in linea dunque con lo spirito degli Elizabeth.
Non mancano, insomma, le argomentazioni a questo disco, in confezione cartonata e zeppo di riferimenti inglesi, con su impressa una formula chimica, quella della ruggine appunto, presente nei suoni e nello spirito vintage della band con un occhio alla modernità. Come dice il loro mentore Paul Weller: “gli anni passano, le mode cambiano, l’attitudine resta”.
Gianluca Merlin

Produzione: Daniele Bagni, Carloenrico Pinna , Elizabeth
Studio di registrazione: Esagono di Rubiers (RE)
Formazione: Marco Montanari (Chitarra Elettrica,Voce)
Matteo Montanari (Tastiere)
Michele Smiraglio (Basso)
Francesco Micalizzi (Batteria)

Tracklist:
1. Un mondo per me
2. Opportunità
3. Piove su Milano
4. Disinfettante
5. Si è fatta quell’ora
6. Elisa, sempre qui
7. La mia generazione
8. Schizofrenia
9. Certi giorni
10. Norlevo
11. Io convivo con me
12. You are my light (bonus track)


Myspace

il videoclip di Piove su Milano
backstage della realizzazione del disco "Ruggine"
You're My Light

SORROWS: “Bad Times, Good Times” (Bomp! Records/Goodfellas, 2010)

Sono un gruppo che non ha goduto di grandissima notorietà i Sorrows. Non parliamo certo di The Sorrows (con l'articolo) beat di Don Maughn/Fardon, al contrario molto noti, soprattutto in Italia, ma del gruppo power pop che nasce nel 1977 dalle ceneri dei beatlesiani Poppees di Arthur Alexander. Il loro genere ha comunque molti legami con i Sixties, dato che power pop – lo ricordiamo – è la definizione coniata da Pete Townshend per descrivere la musica degli Who degli esordi, quella cioè del loro periodo mod.
Il punto di partenza del power pop sono infatti i Beatles e le sonorità assimilabili al loro stile, in particolare quindi il Merseybeat, ovvero il filone più melodico del beat, tipico della scena inglese, sulle quali si innestano però riff di chitarra secchi e potenti e una ritmica più decisa.
I Sorrows incarnano il genere alla perfezione. Nella loro carriera hanno inciso alcuni singoli per la Bomp! e due album per la CBS, “Teenage Heartbreak” nel 1980 e “Love Too Late” nel 1981. Le tracce del primo sono ora riproposte nell'album “Bad Times Good Times” ma in versioni alternative, di certo precedenti all'uscita del primo lavoro dato che sono raccolte dalla Bomp!
La qualità dei brani è però davvero notevole tanto da non far minimamente sospettare che si tratti di alternate tracks. L'album, uscito in CD e in vinile rosso in edizione limitata, con l'aggiunta di due demo inedite e due registrazioni live (tra cui una energica e personale versione di Off the Hook dei Rolling Stones) è di piacevole ascolto e alterna brani più melodici, ma sempre caratterizzati dall'inserimento di chitarre rock piuttosto hard, quali She Comes and Goes, Silver Cloud o la bella Can't Go Back dai richiami Northern soul, a brani più potenti e ritmati, a cominciare dalla title track che apre il disco con un altro riferimento ad una canzone degli Stones, anche se questa volta solo per il titolo, per proseguire con pezzi davvero accattivanti come Can't You Tell A Lie, I Don't Like It Like That o la kinksiana All You Gotta Say.
Un bell'ascolto nel complesso per chi ama il power pop e per chi apprezza i suoni sixties più morbidi (ma non troppo), e comunque l'occasione per riscoprire un gruppo ingiustamente rimasto nell'ombra, operazione a cui ci ha ormai abituati la storica etichetta di Greg Shaw.

Rossana Morriello

Bad Times Good Times (album promo trailer)
Teenage Heartbreak
Bad Times Good Times
Television (live)

martedì 14 dicembre 2010

The Golden Age of THE KINKS - Parte Seconda: 1967-1969

The Golden Age of THE KINKS - Parte Prima: 1964-1966

1967
Il 33 giri "Something Else" del 1967 è pieno di queste mini storie: la deliziosa Two Sisters è sulla vita parallela di due sorelle, una sposata e madre, l'altra una tipica teenager dell'epoca; Death of a Clown, grande successo personale di Dave, sul tramonto di un vecchio clown, Situation Vacant sulla nefasta influenza delle suocere nella vita di coppia, Waterloo Sunset (votata 35 anni dopo fra i 5 migliori singoli britannici di sempre) cattura la tipica atmosfera londinese di Waterloo Bridge al tramonto, con i suoi colori e gli sciami di persone che si affrettano nella metropolitana.
Il raffinato pop descrittivo dei Kinks inizia però a palesare, pur in tutto il suo magnifico splendore, una mancanza di sintonia con i tempi e l'evoluzione musicale: la Summer of Love del 1967 catapulta tutto in un mondo fatto di LSD, visioni, funghi magici e suoni da essi ispirati e votati all'ampliamento delle coscienze. Il suono delle chitarre dopo la rivoluzione Hendrixiana e di Clapton, Beck, Page, Townshend, si fa iperdistorto e spaziale, gli assoli chilometrici, i festivals-happenings si moltiplicano ovunque e i testi cantano di rivolta o di esperienze mistiche e legate alle droghe o di amore come panacea universale. Essere banditi dagli USA che sono sempre di più il centro del mondo musicale e del mercato, è un handicap pesantissimo per i 4 di Muswell Hill.
In una scena musicale in cui il 33 giri ha ormai soppiantato il 45 giri come mezzo di espressione per i nuovi gruppi Rock psichedelici, i Kinks tentano di restare a galla con singoli e splendide canzoni.

1968
Mentre Autumn  (dicembre 1967) centra il bersaglio, Wonderboy e la magnifica Days (maggio 1968) non vendono granché. Stesso destino attende il grande capolavoro della band negli anni '60: oggi sembra incredibile dopo tutti gli onori e i riconoscimenti
tributatigli negli ultimi anni e le varie riedizioni in multipli box-set, ma "The Kinks Are the Village Green Preservation Society", album del 1968, fu accolto con freddezza, quasi ignorato dal pubblico e vide la luce in forma assai rimaneggiata dal deluso Ray, stanco delle continue lotte con la cecità dei discografici che si rifiutarono di pubblicare il disco in forma di doppio album.
Village Green è pieno di stupende canzoni e originali arrangiamenti ed è incentrato sul tema della nostalgia per le radici britanniche, atmosfere e tradizioni ormai intaccate dal modernismo dell'americanizzazione imperante. Ma i tempi non potevano essere più inadatti per una simile proposta: nel 1968 il motto era Revolution, non Preservation; Free Love, non Virginity; Action, non Observation. E' tuttavia un peccato che episodi musicali così perfetti non abbiano avuto all'epoca il giusto riconoscimento: si va dal pop-rock di Starstruck, Johnny Thunders, Village Green, al quasi hard-rock di Big Sky, Wicked Annabella alla delicatezza acustica di Sitting by the Riverside, Phenomenal Cat, al Calypso di Monica, al blues di Last of the Steam Powered Train.
Questo album segna anche l'ultima incisione dei Kinks nella formazione originaria: il bassista Peter Quaife abbandona, stanco della formula che lo costringeva ad un ruolo marginale e al suo posto arriva John Dalton, ottimo sostituto, già nel 1966 collaboratore della band.

1969
Ray Davies si rimise subito al lavoro e dopo qualche mese la sua predisposizione narrativa sfocerà in un progetto piuttosto ambizioso: un film per la televisione e un album che ne racconta in musica la trama. Ben prima che gli Who pubblicassero la pluricelebrata opera rock "Tommy", la mente di Ray partorisce "Arthur, the Decline and Fall of the British Empire", ennesimo capolavoro musicale, ispirato dalle reminiscenze infantili del cognato Arthur, uomo profondamente disilluso dalla situazione post-bellica inglese e persuaso ad emigrare in Australia, la nuova terra promessa.
Partendo dal personale la storia punta il dito sui malesseri della società britannica, attraverso la vicenda di un uomo qualunque colto a riflettere sul passato, sulle scelte fatte sul lasciarsi vivere e sulla mancanza di prospettive future. I tipici valori come patria, famiglia, benessere, vita tranquilla, onore militare, sono messi in discussione in una serie di canzoni permeate, stavolta, da un maturo disincanto e da un a presa di coscienza della assurdità e vacuità di certi credo così radicati nelle vecchie generazioni. Ma l'atteggiamento di Ray verso questo tipo d'uomo travolto dall'educazione e mentalità inculcategli è di comprensione e compassione più che di aspra e assoluta condanna.
Musicalmente il disco è forse il migliore realizzato fino ad ora dalla band.
La qualità eccelsa del songwriting, la ricchezza e la geniale trama degli arrangiamenti sono pari e a volte superiori a certe opere beatlesiane. Con molta discrezione e incisività fanno la loro comparsa i fiati, ma il sound rimane fondamentalmente chitarristico con frequenti interventi delle tastiere.
La produzione suona finalmente più moderna e potente, è un vero album rock più che di pop music.
Le tematiche, come detto, vanno dal duro antimilitarismo di Yes Sir, No Sir, Some Mother's Son, Mr.Churchill Says alle riflessioni sulla caduta dell'impero di Victoria, e Brainwashed, ai valori piccolo borghesi in Shan-gri-la, all'idealizzazione del passato in Young Innocent Days, fino alla conclusiva dichiarazione di solidarietà con tutti gli "Arthur" del mondo del brano omonimo.
L'uscita del disco nell'autunno del 1969 coincise con il rientro in tournee sulle scene americane terminato il bando quinquennale per i Kinks. Dopo un rilancio del gruppo ad opera dei discografici americani i Kinks fecero da supporto agli Who in alcune date iniziali e, dato che Arthur era uscito in America 6 mesi dopo Tommy, Ray si sentì accusare dalla miope critica americana di scopiazzare le idee di coloro che in più di un'occasione (come spesso ammesso da Pete Townshend) erano stati così ispirati dalle sue intuizioni musicali.
Le tematiche troppo sottili e l'approccio così maturo alle problematiche presenti nel disco risultarono, ancora una volta, non in sintonia con un'epoca storica in cui le vecchie generazioni dovevano essere spazzate via in nome della rivoluzione, non comprese e compatite.
"Arthur" non andò oltre il 92esimo posto nelle chart americane e i tre singoli estratti dall'album fecero poco meglio.
Nel 1969 infine uscì per la Golden Hour un'ottima raccolta dei Kinks riferentesi al periodo 1964-1969, "The Golden Hour of The Kinks", ripubblicata nel 1971 dalla Pye Rec.Questi aurei sei anni sono celebrati anche nel doppio cd "Kinks BBC Sessions 1964-1977", molto interessante, uscito nel 2001 per la Castle Music.
Gli anni Sessanta di chiusero così in modo artisticamente eccellente ed integro per uno dei gruppi più creativi e originali del decennio, ma certamente la scarsa considerazione del pubblico verso il tentativo di emanciparsi dal mercato dei singoli, dovette essere piuttosto frustrante per la delicata sensibilità di Ray Davies, consapevole di essere in uno stato di grazia creativa non compreso.
Il decennio successivo avrebbe riservato ai Kinks altri problemi, altre tensioni, altre ispirazioni, altra grandissima musica e finalmente, la meritata conquista del mercato americano.
Andrea Angelini
UnOfficial Kinks Website