giovedì 28 aprile 2011

VANILLA FUDGE: " Un biglietto per cavalcare l'anima"

Parlare dei VANILLA FUDGE è l’equivalente del narrare le vicende di un artista forse mai compreso fino in fondo e mai rivalutato come è accaduto per moltissimi gruppi della storia del rock. Formazione molto particolare i Vanilla, molto amati qua in Italia, al pari di gruppi più famosi come Beatles, Rolling Stone e Who, ma paradossalmente meno conosciuta in molti altri stati del globo. Può capitare, infatti, che molti ex ragazzi degli anni '60 riconoscano al volo le particolari sonorità della formazione americana, viceversa trovano pochissimo spazio tra gli ascoltatori più giovani. Un pubblico di nicchia il
loro quindi, una ristretta cerchia di seguaci sparsi un po’ in tutto il mondo che da ormai quarant’anni continuano a seguire le gesta di questo gruppo tanto originale quanto affascinante. Il suono dei quattro ragazzi di New York è quanto di più strambo potesse capitare all’epoca, cioè verso la fine degli anni 60. Un suono caratteristico, un efficace e bizzarro miscuglio di psichedelia, vagiti progressivi, tessiture hard rock e spunti sinfonici. Il risultato alle orecchie dell’ascoltatore è immediato, palese, riconoscibile, un marchio di fabbrica, un distintivo, come poche altre band della storia del rock. Non era pura psichedelia la loro, non si trattava nemmeno di rock - anche se di lì a poco sarebbero comparse sulla scena formazioni come i Deep Purple che si ispiravano ai suoni più duri suonati dal gruppo – e non era nemmeno progressive, dato che sarebbe poi germogliato in Europa qualche anno dopo, ma il loro era un suono bellissimo, affascinante, unico, stravagante e singolare, dove classicismi, visioni lisergiche e rock si incontravano fondendosi per la prima volta. I Vanilla Fudge si formano nella grande mela nel 1966, dall’incontro di quattro ragazzi ventenni, Mark Stein e Tim Bogert, rispettivamente tastiere e basso, che suonavano già nei Rick Martin & The Showmen e Vince Martell (chitarra) e Carmine Apice (batteria) che si aggregheranno di lì a poco. Per un breve periodo si fanno chiamare Pigeons su suggerimento di un’amica, così vuole la leggenda, scelgono il nome definitivo, Vanilla Fudge, ispirato ai coni di gelato aromatizzati alla vaniglia.

Vanilla Fudge (1967)
L’anno successivo il quartetto newyorkese pubblica per la ATCO il primo album dal titolo omonimo, dalla coloratissima copertina. La struttura dell’album è semplice; si tratta, infatti di cover di gruppi che all’epoca in America e in Inghilterra andavano per la maggiore: Beatles, Zombies, Sonny & Cher e Supremes. Canzoni rivisitate con il loro stile, dimezzate di velocità e infarcite di tastiere e voci sofferte, quasi recitate con una certa drammaticità. Nei solchi scorre ancora abbondante il beat e i suoni tipici degli anni 60, ma è la pesantezza di certi passaggi che sorprende, il drumming efficace e sporco di Appice, rigorosamente in mono, e le tastiere lisergiche di Stein fanno la differenza. You keep me hanging on ne è un esempio: da canzonetta pop nella versione delle Supremes qui diventa una composizione vera e propria, con una lunga e spettrale introduzione, a cui seguono arabeggianti motivi di chitarra e originalissime partiture d’organo. Dopo due minuti e mezzo ha inizio la canzone vera e propria, con il tema principale che qua scorre a metà velocità rispetto all’originale. Non da meno in quanto ad atipicità è la traccia d’apertura, quella Ticket to ride che fu dei Beatles. Rallentata, quasi storpiata, ma stravolta in positivo, arricchita di cori e tastiere a go go. Sempre Eleanor Rigby, prima della solita magniloquente introduzione, scorre via tra ritmi lenti, toni quasi depressi, resi lenti a mo’ di giradischi che sembra rallentare. Canzone stravolta quindi, un altro brano, niente a che vedere con quella dei Fab Four. Anche She’s not there, People get ready e Bang bang, subiscono lo stesso trattamento e non scappano alle loro regole: originalità a fiumi, tastiere onnipresenti e cori. Forse c’è un po’ di autocompiacimento e a tratti, forse, un po’ di esagerazione, ma proprio questa è la caratteristica che li accompagnerà negli album a venire. L’album avrà un po’ di successo in USA e in Inghilterra, stazionando per un breve periodo nelle zone basse della classifica.

The beat goes on (1968)
L’anno successivo il gruppo dà alle stampe l’album più difficile del lotto, il disco meno digeribile della loro intera discografia. Il lavoro a giudizio di chi scrive non è omogeneo come l’album di debutto, un’opera forse troppo pretenziosa al limite della noia da parte dell’ascoltatore. Una specie di concept album che raccoglie tre secoli di musica raggruppati nei solchi delle due facciate del vinile. L’ellepì è strutturato in “fasi”: phase 1, phase 2, phase 3 e phase 4, legate assieme dal filo conduttore di The beat goes on di Sonny & Cher. Dopo un brano originale, per altro godibile, ha inizio la phase 1 che comprende citazioni di Mozart, canti tradizionali e quattro canzoni dei Beatles. La seconda fase inizia, come tutte quelle presenti nel disco, con l’omaggio al brano di Sonny & Cher per poi proseguire con quello che è, a mio giudizio, il pezzo più riuscito dell’album, Fur Elise/Moonlight sonata, dove i nostri con molta originalità rivisitano un motivo classico come Per Elisa, arrivando a costruire incastri sonori con cori, un dolce uso del piano e deliziosi cambi di tempo con l’organo di Stein che scandisce con forza il ritmo. A chiudere la seconda facciata abbiamo intermezzi jazzati accelerati e rallentati sempre centrati sulla canzone di Sonny Bono. La terza fase si apre con il motivo più ostico dell’intero lavoro, un collage di voci storiche unite a quelle di presidenti americani: da Thomas Edison, Neville Chamberlain, Winston Churchill, passando per Franklin Delano Roosevelt, Harry S. Truman, a John F. Kennedy. Dopo questo lungo e difficile intermezzo ha inizio l’ultima fase, come sempre preceduta da uno spezzone rivisitato di The beat goes on. La phase 4 è un altro collage di voci, questa volta da parte dei quattro membri del gruppo che su una base strumentale di sottofondo pronunciano una serie di frasi. Un disco difficile quindi, senza sussulti particolari, un esperimento ardito forse mai fatto prima nella allora giovane storia del rock. Anche rinnegato in seguito dalla stessa band, come scritto nelle note di copertina della ristampa Sundazed: “Questo fu l’album che uccise il gruppo”. Un lavoro insomma che non giovò ai Vanilla, visto che stavano già lavorando a Renaissance, che uscì di lì a poco. Tuttavia ebbe un discreto successo, soprattutto qua in Italia, la versione sinfonica del classico di Beethoven, che fu provata e suonata anche da numerosi complessi beat in voga all’epoca nel nostro paese, come per esempio i Ganci di Pavia. Fu quindi quello un azzeccato esperimento che ispirò molti nostri giovani gruppi che negli anni seguenti contribuirono ad arricchire la prolifica scena progressive italiana.

Renaissance (1968)
Sempre nello stesso anno i Vanilla Fudge danno alle stampe il loro terzo disco, una via di mezzo fra l'album di debutto e quello successivo. Aumenta il rock nudo e crudo e cominciano a far comparsa alcuni brani originali scritti dai quattro membri del gruppo, con conseguente diminuzione delle cover. Il lavoro esce sempre per la ATCO e si segnala da subito per l’evocativa, depressa e sognante copertina che si abbina ottimamente con lo spirito sonoro proposto nel disco. L’ellepì inizia da subito con una composizione originale, sognanti e lisergiche, con una chitarra acida e penetrante e le solite tastiere superlative. Il brano prosegue con sonorità estremamente accattivanti sino alla sua chiusura e da subito si percepisce che il disco sarà migliore del precedente. I momenti dilatati e estatici proseguono anche con la canzone successiva, Thoughts, anch’essa grondante di hammond e una convincente melodia.The sky cried/when i was a boy, che da subito si incanala verso atmosfere Paradise accentua ancora di più le immagini trasognate del gruppo con una magica introduzione di tastiere e atmosfere quasi eteree, spirituali, senza tempo, impreziosite anche da rintocchi di campane. That's what makes a man chiude magnificamente la prima facciata con convincenti melodie intrise sfacciatamente di psichedelia, ma anche di gradevolissimo rock. Finalmente girando il disco si giunge alla prima cover – due in tutto il disco – una rivisitazione di The spell that comes after di Essra Mohawk. Subito dopo troviamo quello che per scrive è uno dei vertici, se non il punto più alto, dell’intero disco: Faceless people, eccezionale miscuglio di psichedelia, rock e visioni lisergiche scandite da un hammond spettrale, arpeggi di chitarra arabeggianti che creano un mix emotivo di depressione e suggestione. Di lì a poco una furia cieca, brutale, selvaggia di intricate distorsioni chitarristiche e organistiche. E intanto è andato via quasi metà pezzo, che presegue nei minuti restanti con acide divagazioni di chitarra e suoni molto convincenti. Subito dopo abbiamo un altro apice del disco, la seconda (e ultima) cover, una dilatatissima Season of the witch di Donovan, resa quasi mistica, spirituale, con atmosfera sognanti che chiudono in modo quasi malinconico l’album. Di fatto il lavoro termina qua, ma nell’ottima ristampa Sundazed sono presenti anche lati b e brani non presenti su disco, come l’ottima stralunata rivisitazione di The look of love di Burt Bacharach e l’originale Where is my mind. Un disco gradevole quindi, un naturale prosieguo ed evoluzione di quello che era l’album di debutto, che alterna momenti di rock pesante ad altri molto più fantasiosi ed evocativi. Nonostante l’elevata originalità di alcune canzoni e l’elevato standard qualitativo ancora una volta i Vanilla non finiscono ai vertici delle classifiche, come per altro mai lo furono nella loro breve carriera, ma questo disco dona un po’ di serenità alla band che da lì a poco comincerà a lavorare per "Near the beginning".

Near the beginning (1969)
Nel 1969 esce il quarto album della formazione di New York che sin dalla copertina fa intuire una maggiore propensione alla “normalità” e al rock classico piuttosto che a certe divagazioni psichedelico-sinfoniche. L’artwork raffigura, infatti, i quattro musicisti alle prese con i propri strumenti (magari fotografati durante l’esibizione di Break song?,) ciascuno raffigurato con una diversa tonalità di colore. L’apertura del disco è il brano in assoluto più rock proposto dal gruppo. Shotgun spara subito cartucce ad alta densità rock e un suono grezzo e a bassa fedeltà. Quasi una svolta in confronto ai precedenti lavori, che in effetti ci sarà. Subito dopo abbiamo forse l’apice dell’intero disco, una dilatata e rarefatta rivisitazione di Some velvet morning di Nancy Sinatra e Lee Hazlewood. La loro canzone più famosa in assoluto, quella per la quale vengono ricordati ancora oggi, che li portò ad esibirsi in Italia e a vincere la Gondola d’oro di Venezia. Un’esibizione che stupì e spaventò l’ignaro e genuino pubblico italiano, che si ritrovò quasi violentato da sonorità finora mai ascoltate. Al centralino arrivarono decine di telefonate di spettatori indignati e spaventati da quei suoni che erano rifiutati dalle loro menti ed orecchie infarcite di classiche melodie all’italiana. Probabilmente quella performance ebbe lo stesso effetto di una violenta pugnalata nello stomaco, uno shock. Some velvet morning sarà il loro momento più elevato, e mai più raggiunto, che in 7 minuti e mezzo affascina l’ascoltatore con suadenti melodie strumentali e delicati sussurri vocali. Senza pause, immediatamente dopo la fine del pezzo, inizia Where is happiness che chiuderà la prima facciata. Rumorismi, distorsioni e scricchiolii, atmosfere oniriche, visioni lisergiche, forse tutto il loro ego è condensato qua. Un inizio non proprio in alta fedeltà, che per più di un minuto porta l’ascoltatore verso lidi inesplorati e visioni colme di lsd. Una validissima chiusura di facciata. L’altro lato del vinile è interamente occupata dalla straordinaria Break song, lungo brano improvvisato suonato dal vivo probabilmente sotto gli effetti dell’lsd, così raccontano le cronache. Psichedelia, blues, rock, improvvisazione, talento: qua c’è proprio tutto. Musicalmente il brano racchiude quattro improvvisazioni di tutti i membri del gruppo. Ad aprire le danze ci pensa l’acida chitarra di Martell che divaga in lidi pregni di suoni saturi e aspri. Dopo è il turno di Bogert che ci regala un assolo di basso, cosa rara a vedersi e non molto comune a quell'epoca, che abbinandosi a Martell e alla sua chitarra dà vita ad un passaggio incredibilmente sporco e distorto: disperazione, quasi un lamento, un trip lisergico che esce rabbiosamente dalla sua quattro corde. Ora tocca a Stein che con il suo glorioso organo hammond ci regala momenti jazzati di ottimo gusto. Chiude la straordinaria performance del gruppo Carmine Apice, che si esibisce in un assolo lungo ben 6 minuti. Come per il precedente la ristampa Sundazed aggiunge altri tre brani, Good Good Lovin, la single version di Shotgun e la brutta People.
Un album dunque molto più tradizionale rispetto ai tre che l’hanno preceduto: un lavoro molto più assimilabile, più classico e più canonico, più in regola con gli standard classici del rock. Praticamente sarà anche il loro vertice commerciale che non toccherà più i livelli di vendita di Some velvet morning, dato che dal successivo Rock n’ roll inizierà il declino che li porterà a sparire dalla scena per parecchi anni.

Rock'n'roll (1969)
Disco uscito nel settembre del 1969, come dice il titolo stesso, è un lavoro maggiormente improntato sul rock e sempre più distante dalle sonorità iniziali. Tuttavia l’album, non contenendo particolare brio e innovazione come i precedenti, passò praticamente inosservato, relegando il gruppo ad un mesto scioglimento. Un disco forse troppo banale per una formazione che ci aveva abituato e deliziato con ben altre vette artistiche. Ci sono ancora momenti psichedelici nella iniziale Need love e un buon abbinamento di chitarre e tastiere, ma il resto del disco è fin troppo monotono e monocorde. Tant’è che fu il loro canto del cigno. Nel marzo del 1970 i Vanilla suonarono per l’ultima volta e il gruppo si sciolse.


I soli Tim Bogert e Carmine Appice continueranno con successo la carriera musicale, suonando nel gruppo rock dei CACTUS. Con questa formazione realizzeranno quattro dischi, per poi formare, nel 1972, il supergruppo con Jeff Beck, BECK, BOGERT and APPICE appunto. Per anni non si sentirà più parlare di loro, sino al 1984, quando sull’onda del revivalneopsichedelico e di una generale nostalgia degli anni '60 il gruppo si riforma per pubblicare "Mistery". Negli anni seguenti Carmine Appice diventerà un apprezzato sessionman e un batterista di indubbia bravura e fu l’unico ad essere ricordato. Dagli anni '90 ad oggi seguirono varie raccolte, "Psychedelic Sundae - The Best Of Vanilla Fudge" su tutte, e una nuova reunion avvenuta nel 2002 con l’album "The return". Disco, secondo chi scrive, godibile, con una bella e originale rivisitazione di I want it that way dei Backstreet boys. Negli ultimi anni i Vanilla hanno pubblicato anche vari live, alcuni di dubbia provenienza, e un nuovo album originale, "Out Through The In Door" nel 2007, nel quale reinterpretano ben 12 canzoni dei Led Zeppelin.

In conclusione possiamo dire che i Vanilla Fugde sono stati una felice intuizione nell’America di fine anni '60, ma proprio per la loro eccessiva originalità non ebbero mai un successo di massa. Tuttavia ad oggi rimangono un gruppo apprezzato da una ristretta e fedele cerchia di appassionati sparpagliati in tutto il globo che, con l’avvento di internet, sono molto più vicini. In estrema sintesi mi sento di consigliare, a chi non li ha mai ascoltati, Near the beginning e l’omonimo album di debutto su tutti, successivamente Renaissance e quindi Rock'n'roll e The beat goes on. Lasciatevi tranquillamente avvolgere dal loro suono con un ascolto in cuffia o in solitudine, scoprirete un mondo incantevole.
Massimiliano Bruno
Vanilla Fudge


discografia
1- Vanilla Fudge (1967)
2- Beat Goes On (1968)
3- Renaissance (1968)
4- Near The Beginning (1969)
5- Rock & Roll (1970)
6- While The World Was Eating [Pigeons] (1970)
7- Star Collection (1974)
8- Two Originals (1976)
9- Best Of Vanilla Fudge (1982)
10- Mystery (1984)
11- Live: The Best Of Vanilla Fudge (1991)
12- Concert Collection [Live] (1993)
13- Psychedelic Sundae: The Best Of Vanilla Fudge (1993)
14- Hits (1997)
15- People Get Ready (2001)
16- Returns (2002)
17- Vanilla Fudge (2002)
18- Out Through The In Door (2007)

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