lunedì 17 ottobre 2011

MOVIES: "THIS MUST BE THE PLACE", di Paolo Sorrentino (2011, USA)

Dopo i fasti di Cannes l’attesa per il debutto internazionale di Paolo Sorrentino era altissima, stimolata anche e soprattutto dall’attenzione maturata per il cineasta italiano da una star del calibro di Sean Penn, che fin dai tempi della presidenza della giuria del festival francese che assegnò il Prix du Jury a "Il Divo", aveva espresso la volontà di collaborare con il regista. "This must be the place", storia di una ex rockstar degli anni ’80 in crisi, catapultato dalla vita che conduce in Irlanda (fatta di piccole quotidianità e piccoli drammi)
negli Stati Uniti, alla ricerca del carnefice nazista del padre (ex internato di Auschwitz), cui il genitore aveva dato la caccia per tutta la vita, non convince fino in fondo, e non ripaga la grande attesa che aveva caratterizzato la realizzazione prima, e l’uscita poi, del film.
Cheyenne, protagonista del film, interpretato da Sean Penn, dei fasti della new wave e del dark conserva solo la pettinatura cotonata alla Robert Smith e l’amore per il cerone ed il rossetto. Per il resto la sua vita scorre tra la routine familiare con la moglie vigile del fuoco (un’ottima Frances Mc Dormand), la spesa al supermercato e il rapporto d’amicizia con una giovane dark in crisi esistenziale anch’essa.
Il viaggio alla ricerca dell’aguzzino paterno porterà l’ex cantante verso la ricerca di una (supposta) nuova consapevolezza, al di là della noia quotidiana. E proprio qui sta il primo punto dolente del film: in maniera piuttosto scontata la ricerca dell’io si esplicita attraverso il viaggio, e cinematograficamente attraverso il road-movie, formula esausta, nella sua interpretazione canonica, per affrontare tematiche del genere. E' curioso che del fatto sembri accorgersene anche il personaggio – e dunque la sceneggiatura – quando rispondendo alla moglie che gli chiede se avesse intrapreso quel viaggio per ritrovare se stesso Cheyenne risponde: “sono in New Mexico, mica in India”. La parte “americana” del film, dunque, è tutta giocata su una serie di luoghi comuni sul road movie americano, che visti da occhi europei non possono non far venire il sospetto di una visione anche, per così dire, “turistica” dell’America e della sua mitologia. L’America filtrata dalla macchina da presa di Sorrentino, infatti, è costruita su una serie di scelte di ambientazione che non brillano certo per originalità e che sono esse stesse dei luoghi comuni filmici: dalle inquadrature in grandangolo degli enormi spazi e dei paesaggi, le strade dritte che tagliano il deserto puntando verso i cieli azzurri frastagliati di nuvole, le stazioni di servizio immerse nel nulla, tavole calde e cheeseburger, pellerossa silenziosi ed enigmatici, casette suburbane abitate da signore amanti dei gatti e dal discutibile gusto per l’arredamento. Il tutto sa, insomma, di già visto, e soprattutto di poco meditato: la visione è quanto meno stereotipata. Non manca neanche una visione della storia (e della vita?) degna del Wim Wenders peggiore, e nefastamente “poetico”: un crogiuolo di incontri in cui tutti sono buoni e tutti sono filosofi (con lo spettatore che non può far altro che chiedersi “ma perché?”), e gli sconosciuti regalano al viaggiatore perle di saggezza e frasi ad effetto sul senso della vita. Non ci risparmia Sorrentino neanche spinte verso un lirismo tutto di maniera – da cui il regista non è mai stato immune – tentando di fissare sullo schermo alcuni momenti che potremmo definire totemici (la scena del bisonte su tutte, che rimanda all’apparizione epifanica di quel gatto bianco ne Il Divo), in cui si tenta di narrare per immagini gli stati d’animo, ma si finisce sempre per risultare stucchevoli agli occhi dello spettatore minimamente smaliziato. Unica eccezione positiva a questo atteggiamento è l’irruzione sullo schermo di David Byrne (autore anche delle musiche del film), presentato mentre esegue dal vivo la canzone che dà il titolo al film: in questa occasione l’azione sembra davvero congelarsi per tutto il tempo della sequenza, e il film tocca il suo apice di emozione. La scena seguente, inoltre, in cui Cheyenne confessa al leader del Talking Heads la propria insincerità (parafrasando il discorso si potrebbe sintetizzare in:
“tu sei un artista vero, io ero una fottuta popstar che scriveva canzoni deprimenti per ragazzini depressi solo perché all’epoca scrivere canzoni del genere faceva guadagnare un sacco di soldi”) resta forse l’unico momento in cui il personaggio viene indagato psicologicamente. E proprio la caratterizzazione del personaggio di Cheyenne è un altro dei punti deboli del film: per dipingerlo, infatti, la sceneggiatura spinge il pedale sul grottesco, fino a sconfinare nella vera e propria macchietta. Il personaggio della rockstar bollita è dipinto come un disadattato e annoiato bambinone, fatto di tic e movimenti innaturali e sgraziati che più che Robert Smith ricorda le recenti apparizionitelevisive di Ozzy Osbourne (si pensi alla degenerazione trash di un mito della musica in uno show come The Osbournes), tutti elementi che portano lo spettatore a non riuscire ad affezionarsi e solidarizzare con il personaggio.
L’impressione generale è che si siano voluti affrontare in un unico film troppi temi, troppi problemi: la solitudine, la noia, la depressione, il rapporto coi genitori, il viaggio, la vendetta e il perdono, il ritorno. Tutto rimane accennato, e se in alcuni casi le difficoltà di soluzione fanno parte del gioco della narrazione (e della vita), nel caso del film sembra che ci si trovi davanti più che altro alla difficoltà di gestire la storia (trattando molti argomenti con una certa superficialità), più che alla scelta di lasciare aperta la storia.
Quello che rimane di straordinario è la capacità registica di Sorrentino, che davvero è un mago della macchina da presa, utilizzata con una sapienza ed un’inventiva che in molti casi ha dello straordinario. Da questo punto di vista Sorrentino è un maestro vero (in pochi girano come lui i piani sequenza, almeno tra i registi della sua generazione), ma l’accumulo di tecnica presente nel film rischia già di diventare anch’esso di maniera, puro sfoggio di sapienza registica fine a sé stessa. Verrebbe quasi da pensare, non senza cattiveria, che nelle intenzioni del regista ci fosse più la volontà di presentare ai futuri investitori hollywoodiani le sue capacità di realizzazione tecnica, piuttosto che un film costruito nella sua completezza. Come dire, un ottimo biglietto da visita da consegnare oltreoceano in vista di una prosecuzione americana della propria carriera.
Luca Verrelli


(Durata 118', con Sean Penn, Frances McDormand, Judd Hirsch, Eve Hewson, Kerry Condon, Harry Dean Stanton, Joyce Van Patten, David Byrne)

This Must Be The Place






1 commento:

Alessandro Corso ha detto...

Da vedere ? :)